FORSE NON TUTTI SANNO CHE...

Ci sono vecchie leggi che sono rimaste nella memoria delle persone ma che non sono più in vigore, il fenomeno è noto come "leggi metropolitane". Si tratta di vecchie leggi, spesso tramandate oralmente, che hanno perso validità o sono state abrogate, ma che continuano a persistere nella memoria popolare. Queste convinzioni possono condurre a compiere errori, in quanto le persone ignorano la legge reale. È importante essere sempre informati sulle leggi effettivamente in vigore e rimediare alle convinzioni errate.

Pensiero errato: Non c'è bisogno di un avvocato in una separazione consensuale.
Realtà: Anche nelle separazioni consensuali, un avvocato può aiutare a proteggere i tuoi diritti e a creare un accordo equilibrato e legittimo.

Pensiero errato: Il coniuge che lascia la casa perde automaticamente i diritti sui figli.
Realtà: L'affidamento dei figli viene deciso dal tribunale in base all'interesse superiore del minore, indipendentemente da chi lascia la casa coniugale.

Pensiero errato: Il divorzio è immediato dopo la richiesta di separazione.
Realtà: Il divorzio in Italia richiede un periodo di separazione di almeno sei mesi se la separazione è consensuale, o tre anni se non lo è, prima che la separazione possa essere trasformata in divorzio.

Pensiero errato: I beni acquisiti prima del matrimonio non vengono divisi in caso di separazione.
Realtà: Il regime matrimoniale separazione dei beni separa i beni acquisiti prima del matrimonio da quelli acquisiti durante il matrimonio. Tuttavia, l'altro coniuge può essere comunque ritenuto responsabile per i debiti contratti durante il matrimonio, anche se questi vengono ripartiti.

Pensiero errato: Il mantenimento viene automaticamente sospeso se il coniuge a carico inizia a convivere con un'altra persona.
Realtà: La sospensione del mantenimento non è automatica e deve essere richiesta presso il giudice, che valuterà la situazione specifica e la capacità di autonoma sussistenza dell'ex coniuge.

Eliminare questi pensieri errati e informarsi accuratamente sulla legge italiana in materia di separazione può aiutare a gestire meglio i diritti e le responsabilità durante la separazione e il divorzio.

Aprofondimenti

Il coniuge che gode dell'intero immobile comune, deve corrispondere un contributo per l'affitto all'altro coniuge

Se uno dei coniugi abita la casa di proprietà comune dopo la separazione, è tenuto al pagamento dell’affitto o di altro contributo a favore dell’altro proprietario?

La questione all’attenzione della Cassazione è stata originaria dal fatto che un coniuge aveva continuato a vivere esclusivamente nella casa coniugale, di proprietà comune all’altro coniuge, pur non avendo alcun provvedimento di assegnazione o altro titolo che gli consentisse di utilizzare il bene in via esclusiva. L’altro coniuge proprietario al 50% aveva chiesto il pagamento dei frutti e la Corte di Cassazione, Sezione 2 Civile, con l’ordinanza del 18 aprile 2023 n. 10264 ha riconosciuto che tale richiesta è legittima, in accordo con le norma che regolano la comunione. Attenzione tuttavia: le somme sono dovute solo a a partire dalla richiesta degli altri comproprietari di godere del bene per la loro parte del bene o con un uso turnario. 

La Cassazione

La Corte ha infatti stabilito il principio di diritto secondo cui “in materia di comunione del diritto di proprietà, allorché per la natura del bene o per qualunque altra circostanza non sia possibile un godimento diretto tale da consentire a ciascun partecipante alla comunione di fare parimenti uso della cosa comune, secondo quanto prescrive l’articolo 1102 c.c., i comproprietari possono deliberarne l’uso indiretto. In mancanza di deliberazione, il comproprietario che durante il periodo di comunione abbia goduto l’intero bene da solo senza un titolo che giustificasse l’esclusione degli altri partecipanti alla comunione, deve corrispondere a questi ultimi, quale ristoro per la privazione dell’utilizzazione pro quota del bene comune e dei relativi profitti, i frutti civili con decorrenza dalla data in cui allo stesso perviene manifestazione di volontà degli altri comproprietari di avere un uso turnario o comunque di godere per la loro parte del bene“.

Infatti, dalla sentenza impugnata si ricava che l’oggetto di comunione è l’abitazione coniugale e dunque una cosa per definizione idonea a produrre frutti civili, di cui uno dei proprietari ne ha goduto in via esclusiva. Sulla base di tali premesse di fatto, la Corte d’appello, invece delle norme sulla comunione, ha falsamente applicato l’articolo 1148 c.c. Questo articolo disciplina il caso, affatto diverso, della sorte dei frutti naturali o civili percepiti dal possessore di buona fede il quale debba restituire la cosa al rivendicante. Regolando l’attribuzione dei frutti nel conflitto esterno tra possessore in buona fede e proprietario, non può operare per disciplinare il diverso problema della ripartizione interna fra più comproprietari dei frutti ritratti o ritraibili dalla cosa comune.

Cosa è la CTU e CTP

CTU

Consulente Tecnico d'Ufficio - Una CTU, è una figura professionale che viene nominata dal giudice per fornire un parere tecnico e imparziale all'interno di un processo civile o penale. Questo parere serve al giudice per comprendere meglio aspetti specifici del caso che richiedono conoscenze tecniche approfondite, come ad esempio:

  • Valutazioni economiche: stime di danni, valutazione di beni, ecc.
  • Esami tecnici: analisi di materiali, verifiche strutturali, ecc.
  • Valutazioni psicologiche o mediche: perizie su persone coinvolte nel processo.

Qual è il ruolo del CTU?  - Imparzialità: Il CTU deve essere completamente imparziale e indipendente, agendo nell'interesse esclusivo del giudice.
Competenze specifiche: Possiede le conoscenze tecniche necessarie per rispondere ai quesiti posti dal giudice.
Elaborazione della perizia: Svolge una serie di accertamenti e analisi per poi redigere una perizia dettagliata, illustrando i risultati ottenuti e le conclusioni a cui è giunto.

Perché è importante la CTU? - La CTU è fondamentale per garantire che il giudice possa prendere una decisione basata su elementi oggettivi e scientifici. In pratica, il CTU funge da "traduttore" tra il linguaggio tecnico e quello giuridico, rendendo comprensibili al giudice aspetti complessi della vicenda.

Determinazione del costo - Il costo di una CTU è stabilito dal giudice, che nomina l'esperto di sua fiducia e definisce in quale misura ciascuna parte dovrà concorrere alla spesa.
Criteri di liquidazione sulla base di tariffe professionali stabilite dalla legge o da regolamenti specifici.
Spese anticipate. Spesso le spese anticipate per l'esecuzione dell'incarico (viaggi, perizie, analisi) sono a carico delle parti e vengono poi rimborsate al termine dell'incarico.

CTP

Consulente Tecnico di Parte - A differenza del CTU (nominato dal giudice per fornire un parere imparziale), il CTP è un professionista scelto da una delle parti in causa in un processo. Il suo compito principale è quello di assistere e supportare la parte che lo ha nominato, fornendo una consulenza tecnica specializzata.

Qual è il ruolo del CTP? - Tutelare gli interessi della parte: Il CTP lavora nell'interesse esclusivo di chi lo ha incaricato, analizzando la questione sottoposta alla sua attenzione e fornendo un parere tecnico che possa avvalorare le tesi della parte che rappresenta.

Contraddittorio con il CTU -Spesso il lavoro del CTP si svolge in contraddittorio con quello del CTU, offrendo una visione alternativa e spesso critica rispetto alla perizia del consulente d'ufficio.

Supporto alle parti - Il CTP può assistere la parte in causa durante le udienze, chiarire aspetti tecnici complessi e fornire elementi utili per la costruzione della difesa o dell'accusa.

Quando si ricorre a un CTP? - Le parti ricorrono a un CTP quando ritengono che la questione sottoposta al giudizio richieda competenze tecniche specifiche e desiderano avere una valutazione indipendente e orientata a tutelare i propri interessi.

In sintesi - Il CTP è una figura professionale che, a differenza del CTU, non ha l'obbligo di essere imparziale. Il suo compito è quello di fornire un supporto tecnico alla parte che lo ha incaricato, contribuendo alla costruzione della strategia difensiva o accusatoria.

Determinazione del costo - La tariffa oraria di una CTU può variare da 50 € a 150 € all'ora, a seconda della specializzazione e della regione, ma le tariffe specifiche sono fissate anche dalle normative locali o dal tribunale che nomina il consulente.
In alcuni casi, la parcella della CTU può essere superiore, soprattutto per consulenze altamente specialistiche o complesse, e si possono arrivare a costi complessivi che superano i 2.000 - 3.000 euro (o anche più) in base alla durata e alla difficoltà dell'incarico.

Caro avvocato, quanto costi

Il costo del Legale Rappresentante è sempre un tasto dolente per tutti, oviamente ogni caso è diverso e non paragonabile. Cerchiamo dunque di dare dei punti di riferimento per un ritrovarsi in situazioni spiacevoli:

1. Obbligatorio il preventivo dei costi del procedimento giudiziario - Vi sono dunque tre sistemi di tariffazione: a) a percentuale sull'esito della causa (patto di quota lite);  b) a forfait (sia come somma unica ma anche come somma annuale);  c) secondo la tariffa forense. In assenza di specifico accordo scritto, nonostante le disposizioni di legge, si continuano ad applicare le tariffe forensi che prevedevano un minimo ed un massimo per ogni attività professionale resa dall'avvocato, a seconda delle circostanze del caso concreto (difficoltà, impegno richiesto, importanza, condizioni patrimoniali dell'assistito, ecc.).

2. Conciliazione della controversia - Alcuni legali prevedono nel contratto sottoscritto dal cliente “che  il cliente verserà, oltre quanto pattuito per l'intera fase processuale in cui avviene la conciliazione, un ulteriore compenso” stabilito all’atto della sottoscrizione del contratto stesso. Il cliente, invece, deve far mettere esplicitamente che in caso di conciliazione verserà solo ed esclusivamente gli importi relativi alle operazioni giudiziarie compiute.

3. Revoca del mandato al legale - I vari contratti proposti possono prevedere “che al cliente rimane l'obbligo di corrispondere al professionista, oltre alle spese sostenute, il compenso pattuito per l'intera fase processuale in cui il recesso viene esercitato ed il 12,5% dell'intero compenso risultante dalla sommatoria degli importi del presente contratto. Tale penale è stata determinata tenendo conto delle spese generali di organizzazione e gestione dello studio”. Il legale non riconosce il diritto alla revoca del mandato da parte del cliente insoddisfatto, deluso e che  spesso non si ritiene pienamente seguito nei Tribunali o si ritiene danneggiato dall’operato del legale a cui aveva dato l’incarico e che spesso non vede più in studio o nelle aule dei tribunali. Negare  - per motivi economici – il diritto di accedere ad altri professionisti costituisce un atto deontologicamente inaccettabile. Non ultimo mettere la clausola che il rinvio di udienza o le lungaggini processuali, inutili e talvolta volute anche dai legali, non verranno pagate dal cliente.

4. Diritto ad impugnare la parcella del legale - Il cliente può contestare fattura pro forma  se non rispondente ai requisiti  pattuiti al momento della firma dell’incarico o, se mancante il contratto scritto, non rispondente all’effettivo lavoro svolto dal professionista. La parcella vistata dall'ordine attesta solo la conformità della parcella alla tariffa legalmente approvata dall’ordine ma non prova, in caso di contestazione del debitore, l'effettiva esecuzione delle prestazioni in essa indicate e deve giustificare l’ammontare degli importi richiesti (Cassazione, sentenza n. 19750-27.9.2011).

Obbligatorietà assegno mantenimento per i figli

"E' dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio".(Costituzione italiana, art.30)

Quantificazione - Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando:

  1.  le attuali esigenze del figlio
  2. il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori
  3. i tempi di permanenza presso ciascun genitore
  4. le risorse economiche di entrambi i genitori
  5. la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.

L'assegno è automaticamente adeguato agli indici Istat in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice. Ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi. (Codice civile, art. 337 ter).

Importante - In qualunque momento, anche durante il procedimento di separazione giudiziaria, l’obbligato (il genitore non collocatario) che non riesce più ad assolvere all’erogazione dell’assegno di mantenimento per i figli per sopravvenute modifiche dei propri redditi  ha il diritto-dovere di ricorrere al tribunale per chiedere la modifica dei precedenti provvedimenti economici a favore del beneficiario, genitore collocatario. Una variazione economica al ribasso dell’obbligato e/o un incremento dei redditi del beneficiario sono sempre rilevanti perché incide sul principio della proporzionalità fra i genitori nel  mantenimento della prole.

Consiglio - Per evitare controversie legali relative al mancato pagamento del mantenimento del figlio, è importante sapere che, dal momento in cui avviene la separazione fisica tra i genitori, scatta l'obbligo di versare un mantenimento che sia tracciabile (tramite assegno o bonifico).

Spese straordinarie dopo la separazione

Non si può supporre, come i fatti poi hanno sempre confermato, che talvolta le spese straordinarie (la cui natura non sempre è fiscalmente chiara) vengono fatte per mettere in ulteriore difficoltà il genitore obbligato a pagarle al 50%.

Le spese straordinarie - ci ricorda la cassazione -  sono “quelle spese non ragionevolmente prevedibili e preventivabili perché non rientranti nella consuetudine e nelle normali esigenze di vita dei figli e che non possono considerarsi esigue in rapporto al tenore di vita della famiglia” (Cassazione civile, sez. I, 01/10/2012, n. 16664). L’assegno di mantenimento per i figli comprende le spese ordinarie, gli alimenti e le spese scolastiche (la mensa, il materiale scolastico, i libri e i trasporti), I libri e le tasse scolastiche sono spese prevedibili e quindi sono da considerarsi ordinarie come le spese sanitarie consuetudinarie (visite di controllo routinarie, ticket e medicine da banco, ecc.).

Il consenso - eccetto la presenza di pericolo di vita, se l’altro genitore non è raggiungibile nemmeno telefonicamente, in regime di affido condiviso, non può essere ignorato è resta condizione imprescindibile per pretendere la restituzione della quota da parte dell’obbligato, cioè del genitore non collocatario.

Consiglio - Nonostante la legge sia chiara su questo punto, in caso di conflitto, è opportuno valutare l'importo da pagare e i costi legali necessari per far valere i propri diritti.

Separarsi e prosecuzione della convivenza senza termine

1. Separati ma conviventi
Moglie e marito possono separarsi e, nello stesso tempo, decidere di vivere nella stessa casa (magari in camere diverse) senza un termine massimo? In molti lo fanno e, a dir il vero, ciò nasconde spesso operazioni elusive. È il caso di chi finge la separazione, con cessione dei beni immobili al coniuge, per evitare il pignoramento da parte dei creditori. Ma c’è anche chi “sposa” questa scelta perché vuol garantire ai figli la possibilità di continuare a vivere sia con la madre che con il padre. Non tutti i giudici però credono a questo intento altruistico ed ecco che, per qualcuno, un accordo del genere è nullo e non può essere ratificato.

2. Cosa prevede la legge – l’intollerabilità della convivenza
Separarsi e poi continuare a coabitare sotto lo stesso tetto, sebbene in camere separate, non è ammesso dalla nostra legge. Il diritto di famiglia non ammette situazioni “ibride”: se ci si separa, ci si deve separare anche fisicamente. Risultato si può vivere da separati nella stessa casa a condizione che sia solo per un lasso di tempo breve, magari solo per consentire all’ex di trovare una sistemazione o le risorse necessarie per pagare un affitto. È vero che, durante il matrimonio, ben possono i coniugi derogare al dovere di coabitazione quando esigenze familiari di carattere superiore lo impongono (ad esempio, per ragioni di lavoro, studio, ecc.), ma ciò non autorizza a ritenere il contrario, cioè ad affermare la validità di un accordo di separazione volto a preservare e legittimare la semplice coabitazione una volta che sia cessata la comunione tra le parti. La separazione non è un atto che può contenere qualsiasi tipo di accordo tra le parti. La separazione si giustifica proprio perché la convivenza è divenuta intollerabile; per cui non si vede come possa coesistere una situazione di «convivenza intollerabile» con una di «coabitazione». Al limite la coabitazione può essere consentita solo per un periodo di tempo limitato, ma giammai a tempo indeterminato. Questo non toglie che i coniugi non possano vivere da separati nella stessa casa, in camere distinte. Ma si tratterà di una «separazione di fatto», cioè non ratificata dal giudice. Ed è anche consentito avere due stati di famiglia nella stessa abitazione. Tuttavia quando la moglie e marito intendano poi formalizzare a tutti gli effetti la separazione, per poi procedere magari al divorzio (non prima di sei mesi), dovranno andare a vivere sotto tetti diversi. È vero che oggi è difficile permettersi di prendere una casa in affitto e continuare a vivere in modo dignitoso da separati. Ed è anche vero che l’interesse del figlio prevale su quello dei genitori, tant’è che molti tribunali stanno adottando il sistema dell’affidamento alternato (i genitori si alternano a vivere nella stessa cosa, ove dimora stabilmente il figlio). È infine vero che ciascuno è libero di fare ciò che vuole all’interno della propria casa, sia anche ospitare il proprio ex coniuge a tempo indeterminato. Ma una situazione del genere non può essere formalizzata nell’accordo di separazione (può al limite trovare spazio in accordi verbali o contrattuali tra le parti, fuori però dal tribunale). Diversamente, si finirebbe per omologare accordi simulatori oppure operazioni elusive, anche a fini illeciti. Questo significa che con la separazione si sospendono gli effetti del matrimonio, ma non vengono estinti. La separazione è pertanto una situazione reversibile, ciò significa che in qualsiasi momento è possibile tornare indietro. Del resto è proprio con questo scopo, ovvero garantire un congruo periodo di riflessione alla coppia, che è nata. Ecco perché continuare a vivere sotto lo stesso tetto espone a un rischio. Se ad un dato momento uno dei due coniugi decidesse di chiedere il divorzio, l’altro, se non è d’accordo, potrebbe sostenere che sono decadute le condizioni che rendevano sensata una separazione e che si è invece aperta la strada per la riconciliazione. A questo punto può diventare spinoso tentare di dimostrare il contrario. Se ciò dovesse accadere quello dei coniugi che non volesse rimanere sposato dovrà riavviare tutta la procedura per la separazione da capo con conseguente dispendio di tempo e denaro e senza contare la ricaduta emotiva. E dall’altro canto uno dei presupposti per la pronuncia della cessazione degli effetti civili del matrimonio, ex artt. 3 della L.898/70 è la non interruzione della separazione (per almeno tre anni dalla comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del Tribunale nella procedura di separazione personale) da intendersi quale non avvenuta ricostituzione  del consorzio coniugale in relazione all’intero complesso dei rapporti costituenti il vincolo matrimoniale nella sua giuridica configurabilità (Cass. n. 4056/97), pertanto appare necessario, ai fini della sentenza di divorzio, che tra i coniugi non vi sia stato il mantenimento o il ripristino né della comunione c.d. spirituale (come animus di riservare al coniuge la posizione di compagno esclusivo di vita)  né della comunione materiale (intesa come convivenza basata su una comune organizzazione della intera vita domestica) ed il relativo accertamento costituisce un potere-dovere del giudice di merito sindacabile in sede di legittimità solo per difetto di motivazione.

 
3. Prassi giurisprudenziali
Appare orientata in tal senso la maggior parte della giurisprudenza sul punto. In tale direzione l’ordinanza del Tribunale di Como del 06.06.2017 ove si legge:

“….fermo restando che sul piano personale le parti hanno facoltà di comportarsi e autodeterminarsi come meglio credono, la loro volontà, anche nella sfera personale e familiare, non può però scegliere la forma da dare al proprio stile di vita al punto di piegare gli istituti giuridici sino a dare riconoscimento e tutela a situazioni le quali non solo non sono previste dallo ordinamento ma si pongono altresì in contrasto con i principi che ispirano la normativa in materia familiare;
in altre parole, l’ordinamento non può dare riconoscimento, con le relative conseguenze di legge, a soluzioni “ibride” che contemplino il venir meno tra i coniugi di gran parte dei doveri derivanti dal matrimonio, pur nella persistenza della coabitazione, la quale ex art. 143 cc costituisce anch’essa uno di questi doveri e rappresenta la “cornice” in cui si inseriscono i vari aspetti e modi di essere della vita coniugale; è vero che in costanza di matrimonio tale dovere può essere derogato, per accordo tra i coniugi, nel superiore interesse della famiglia, per ragioni di lavoro, studio ecc.. sì da non escludere la comunione di vita interpersonale (cfr. Cass. 19439/11, 17537/03), ma ciò non autorizza a ritenere il contrario, cioè ad affermare la validità di un accordo (con le conseguenze di legge della separazione) volto a preservare e legittimare la mera coabitazione una volta che sia cessata la comunione materiale e spirituale tra le parti; più in generale devesi rilevare che lo istituto della separazione trova giustificazione in una situazione di intollerabilità della convivenza, intesa come fattore tipicamente individuale, riferibile alla personale sensibilità e formazione culturale dei coniugi, purchè però oggettivamente apprezzabile e giuridicamente controllabile (cfr. Cass. 8713/15, 1164/14), talchè non si vede nel caso di specie come possa “oggettivamente” apprezzarsi la condizione di intollerabilità della convivenza laddove gli stessi coniugi progettino di prorogarla a tempo indeterminato per ragioni di convenienze varie, atteso il contrasto con il dato di realtà reso evidente dalla persistente, collaudata e “tollerata” convivenza; in pratica essi chiedono che il giudice li dichiari separati perché soggettivamente si ritengono tali, ovvero non provano più reciprocamente sentimento né attrazione fisica, e desiderano proseguire una convivenza meramente formale, ma a tale desiderio (pur legittimo sul piano personale ed attuabile nella sfera privata), non corrisponde alcun “tipo” di strumento e/o istituto nello attuale ordinamento, ergo il desiderio non può assurgere a diritto; non può quindi trovare accoglimento la pretesa di attribuire, con il provvedimento di omologa, riconoscimento giuridico, con i conseguenti effetti tipici della separazione coniugale (scioglimento della comunione dei beni, decorrenza del termine per lo scioglimento del vincolo ecc..), ad un accordo privatistico che regolamenti la condizione di “separati in casa” …..”

4. La pronuncia della cassazione
Sono numerose le sentenze in cui il giudice ha autorizzato temporaneamente i coniugi separati a vivere sotto lo stesso tetto (ossia senza che uno dei due coniugi spostasse la sua residenza altrove). Ad esempio, i coniugi sono autorizzati a vivere sotto lo stesso tetto, fino al momento della vendita dell’abitazione familiare intestata al 50% ad entrambi.
I coniugi sono autorizzati a vivere sotto lo stesso tetto, fino a quando ad esempio, il marito cassaintegrato non troverà un lavoro che gli permetta di prendere autonomamente casa in locazione.
Si tratta di situazioni temporanee ed eccezionali. Del resto la Corte di Cassazione, con la rivoluzionaria sentenza n. 3323 del 2000 con cui la I Sez. Civile della Suprema Corte  ha stabilito che i coniugi “separati in casa” possano ottenere la sentenza di scioglimento degli effetti civili del matrimonio (divorzio), pur avendo continuato a vivere sotto lo stesso tetto, durante la separazione legale, in quanto ciò che è rilevante è che non ci sia stata la riconciliazione intesa come “comunione spirituale”, ossia la volontà di “riservare al coniuge la posizione di esclusivo compagno di vita”. Si trattava di una “separazione in casa”, in quanto i coniugi, pur continuando a vivere nella stessa casa, provvedevano autonomamente alle rispettive necessità, dividendo la casa coniugale in due ambienti distinti, consumando i pasti separatamente, dormendo in camere separate, disinteressandosi della vita dell’altro coniuge.
A fronte di una situazione di evidente “separazione in casa” fortemente caratterizzata dall’animus dereliquendi e da una vita familiare improntata al distacco fisico e spirituale tra coniugi (a nulla rilevando in proposito la coabitazione o l’erogazione di somme di denaro) si afferma come perdurante e non interrotta la normale convivenza. Secondo la Corte il divorzio dovrebbe essere pronunciato sulla base “….della oggettiva mancanza di comunione tra i coniugi all’attualità ed indipendentemente dall’eventuale deterioramento in precedenza del legame coniugale (che comunque è elemento di ulteriore conforto alla tesi dello scioglimento) sia, nel non rendersi conto che, come sovente avviene nei rapporti matrimoniali, all’originario accordo i coniugi hanno sostituito un nuovo e diverso patto di convivenza con elementi del tutto atipici (separazione sotto lo stesso tetto, mancanza di rapporti sessuali, il sostentamento a carico di uno solo dei consorti) rispetto al matrimonio quale giuridicamente  e religiosamente previsto……”   

5. Conclusioni - Premesso quindi che, in presenza di figli e di fronte a possibili ristrettezze economiche, la coabitazione possa apparire “il minore dei mali”, la legge non contempla concettualmente la coesistenza di una separazione legale e al tempo stesso della residenza nella stessa abitazione. Sebbene il giudice possa omologare una separazione che preveda la coesistenza dei due coniugi sotto lo stesso tetto coniugale, sarebbe comunque consigliabile spostare la residenza altrove, laddove il giudice non fosse d’accordo con la proposta di una “separazione in casa” dei coniugi per esempio nell’interesse dei figli minorenni.

Separazione, tua moglie non può cacciarti di casa prima della sentenza

La moglie può anticipare il provvedimento del giudice e allontanare il marito dalla casa coniugale?

Ecco cosa sapere a riguardo per evitare problemi con la giustizia.
Con un recente report, Istat indica che, nel 2023, sono calati separazioni e divorzi ma è pur vero che oggi, nel senso comune, i legami matrimoniali appaiono meno saldi e duraturi di una volta. Divergenze caratteriali o di orientamento nell'educazione dei figli, questioni economiche, scappatelle e mancanza di momenti di tempo libero vissuti in coppia sono soltanto alcune delle cause che, non di rado, portano alla rottura dell'unione.

E, proprio quando le cose si complicano e la convivenza sotto lo stesso tetto diventa assai difficile, se non impossibile.

Alcune domande sorgono spontanee:

  • la moglie può cacciare di casa il marito prima che il magistrato abbia emesso la sentenza di separazione?
  • Se il marito è sbattuto fuori dalla porta della casa coniugale, in che modo può tutelare i suoi diritti se ancora si è in una fase pre-separazione?

Si tratta di quesiti frequentissimi nel caso la coppia abbia prole. Ricordiamo infatti che nella separazione il giudice deve indicare con chi continueranno a vivere i figli e, nella prassi, quasi sempre è la madre la figura affidataria di questi ultimi, specialmente se ancora piccoli o piccolissimi.

Anzi, l’assegnazione della casa familiare è un tema essenziale nell'articolato scenario delle separazioni e dei divorzi, attenendo alla protezione dei minorenni in quanto membri della famiglia. Nella prassi dei tribunali l'abitazione è assegnata in prevalenza al genitore che ottiene il c.d. collocamento dei figli, e questo per la finalità di assicurare loro continuità e stabilità nell’ambiente domestico.

In altre parole, il magistrato, nel decidere a chi dare la casa coniugale, valuterà in primis il benessere dei figli e la necessità di mantenere il precedente contesto di vita, anche in considerazione dello choc che la separazione può comportare nella psiche di un giovanissimo.

Tuttavia la madre non può anticipare i tempi delle procedure. Pur essendo ragionevolmente convinta di divenire collocataria dei figli con la separazione e destinataria dell'immobile, la moglie non può, infatti, scavalcare le determinazioni del giudice. La donna non può cioè farsi “giustizia da sé”, perché ad esempio in preda ad uno stato d'ira dovuto alla scoperta di un tradimento. Esclusivamente il magistrato avrà, infatti, il potere di decretare la sospensione dei doveri coniugali, con il conseguente allontanamento di uno dei due coniugi dalla casa familiare.

C'è poi un aspetto molto importante da considerare: indipendentemente da chi abbia la titolarità del diritto di proprietà sull'immobile (marito o moglie), ciascuno dei coniugi conserverà il diritto a vivere nella casa coniugale fino a che un provvedimento giudiziario non stabilisca il contrario. Come accennato, non sarà possibile cacciare il marito (o la moglie), ma soltanto chiederne l'allontanamento al giudice.

Non solo. La giurisprudenza della Suprema Corte ha ribadito la possibilità di denunciare alle forze dell'ordine la moglie da cui si viene cacciati di casa. Pensiamo ad esempio al caso di chi, prima della separazione, cambia la serratura dell'abitazione, per evitare che il coniuge vi rientri. Ebbene, in tali circostanze questa persona, come indica la sentenza della Cassazione n. 25626 del 2016, sarà ritenuta responsabile del reato di violenza privata. E oltre al danno anche la beffa, perché la moglie potrebbe dover subire anche le conseguenze della c.d. azione civilistica di reintegrazione del possesso, di cui all'art. 1168 del c.c.. In sostanza, il marito potrebbe contare sul provvedimento giudiziario che ordina il reintegro e, quindi, il ritorno in casa nonostante la contraria volontà della moglie.

Concludendo, salvo il particolare caso delle violenze fisiche - che legittima la donna a non aprire più la porta al marito in via di autotutela urgente e prima della sentenza di separazione - la moglie, per non rischiare guai con la giustizia, dovrà fare comunque ricorso al giudice. In tribunale sarà possibile domandare la separazione e, contestualmente, l’assegnazione della casa coniugale. La presenza di figli minori, maggiorenni non ancora autonomi o con disabilità avrà, però, un rilievo chiave per vedersi assegnato l'immobile dal magistrato.

Conto corrente cointestato, il denaro versato non è automaticamente di entrambi i titolari: nuova sentenza di Cassazione

Nonostante un conto corrente possa essere cointestato, la titolarità delle somme può essere attribuita esclusivamente a colui che ha effettivamente effettuato i versamenti? Vediamo cosa dice la Cassazione
Il conto corrente cointestato è uno strumento di risparmio e accantonamento molto diffuso nelle famiglie italiane. Molti coniugi lo utilizzano per gestire le entrate familiari, accantonare risparmi, o semplicemente per avere un conto comune su cui versare e prelevare insieme. In questi casi, i due coniugi sono titolari del conto alla pari, e si presume che le somme depositate appartengano ad entrambi. Tuttavia, questa situazione può cambiare radicalmente nel caso di separazione o divorzio, portando a significative controversie legali.

Bonus genitori separati, misura sbloccata dopo quattro anni: ecco a chi spetta e requisiti

Finalmente, dopo un’attesa di ben 4 anni, la procedura per ricevere il bonus genitori separati è in procinto di essere operativa. Vediamo chi beneficerà del contributo
Sono ormai trascorsi quattro anni da quando venne varata questa misura e ora, finalmente, ci siamo: la procedura per ricevere il bonus genitori separati è in procinto di essere operativa.
Adesso, infatti, chi ha presentato la domanda entro il 31 marzo 2024 (termine poi prorogato fino al 2 aprile 2024) non dovrà fare altro che aspettare l’erogazione da parte dell’Inps, che avverrà con un pagamento in un’unica soluzione, fino a un massimo di 9.600 euro (per chi ha diritto all’importo pieno).

La misura, si ricorda, era stata introdotta nell’ambito del c.d. decreto sostegni e, nella specie, dall'art. 12-bis, comma 1, del decreto-legge 22 marzo 2021, n. 41, convertito dalla legge 21 maggio 2021, n. 69, con cui venne istituito un fondo per il sostegno in favore dei genitori separati o divorziati in stato di bisogno, al fine di garantire la continuità di erogazione dell'assegno di mantenimento, con una dotazione di 10 milioni di euro per il 2022.

Tale fondo mirava a garantire un contributo al genitore che non avesse ricevuto, del tutto o solo parzialmente, l'assegno di mantenimento nel periodo compreso tra l'8 marzo 2020 e il 31 marzo 2022 (data nella quale era venuto a cessare lo stato di emergenza epidemiologica dovuto al Covid).

Ma, più nel dettaglio, chi beneficerà del contributo?

Il contributo predetto, in base ai requisiti richiesti dalla normativa menzionata, spetta al genitore in stato di bisogno e tenuto a provvedere al mantenimento proprio e dei figli minori o dei figli maggiorenni portatori di disabilità grave ai sensi dell'art. 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104.

Nel periodo dell'emergenza sanitaria i figli devono essere stati conviventi con il genitore che ha richiesto tale misura.

Come predetto, requisito è che tale genitore non abbia ricevuto, del tutto o in parte, l'assegno di mantenimento a causa dell'inadempienza del genitore, ex-coniuge o ex-convivente, in conseguenza dell'emergenza epidemiologica, nel periodo di cui si è detto sopra e a causa della riduzione, sospensione o cessazione dell'attività lavorativa per almeno 90 giorni o a motivo della riduzione del proprio reddito almeno del 30% rispetto al reddito del 2019.
Per quanto riguarda l'individuazione dei criteri per lo stato di bisogno, il reddito del richiedente relativo all'anno di mancata o ridotta corresponsione del mantenimento deve essere stato inferiore o uguale ad euro 8.174,00.

La correttezza dei requisiti di accesso è stata verificata dal Dipartimento per le politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio dei ministri, operazione che ha richiesto un lavoro enorme. Di qui i lunghi tempi di attesa.

Ai fini dell'erogazione del bonus, verrà considerata la disponibilità del fondo rispetto al numero dei beneficiari e fino a esaurimento delle risorse. Se il fondo sarà rifinanziato, l’Inps attiverà nuove finestre di domanda online.

Casa di proprietà ma affidata al genitore collocatario? Chi paga le spese di manutenzione?

Il genitore collocatario ha l'obbligo di manutenere in buono stato l'immobile che gli è affidato. Pertanto dovrà provvedere alla manutenzione ordinaria al fine di poter riconsegnare questo immobile in buono stato manutentivo, tenuto conto poi dell'usura del tempo.

Se sono necessarie delle ristrutturazioni straordinarie, allora questo sarà a carico del coniuge proprietario.

Tuttavia, non è possibile non avere cura dell'immobile dove si vive, dove si dimora con i figli, perché vi ha un obbligo di custodia e di manutenzione.

Pertanto attenzione a trascurare o a danneggiare eccessivamente l'immobile in cui vivete in quanto genitore collocatario, perché potreste essere obbligati al risarcimento qualora l'immobile venga riconsegnato in un pessimo stato di decoro.

Avv. Rosa Di Caprio

Dopo la separazione chi paga i debiti rimasti?

In regime di comunione legale dei beni, non tutti i debiti contratti da un coniuge ricadono automaticamente anche sull'altro coniuge, occorre distinguere:

Debiti esclusi dalla comunione (personali): Non ricadono in comunione, quindi non obbligano l'altro coniuge, i debiti:

  • assunti prima del matrimonio;
  • assunti per spese personali (es. vizi, gioco d’azzardo, acquisto beni non destinati alla famiglia);
  • assunti senza l’accordo dell’altro coniuge e non nell’interesse della famiglia.

 Esempio: Se suo marito/moglie ha contratto un finanziamento per un’auto sportiva non destinata alla famiglia, lei/lui non ne risponde.

 Debiti in comunione:
Ricadono in comunione, quindi possono coinvolgere entrambi, i debiti:

  • assunti durante il matrimonio, per esigenze della famiglia (es. mutuo per casa coniugale, spese mediche, istruzione figli, utenze, ecc.), anche se intestati a un solo coniuge, purché a beneficio della famiglia.

Viaggi all’estero con figli minorenni dopo la separazione: cosa dice la legge?

Facciamo subito chiarezza: portare i figli minorenni all’estero dopo la fine di una relazione è, in linea generale, una scelta perfettamente legittima e rientra tra le facoltà di ogni genitore. Tuttavia, non è lecito farlo contro il parere dell’altro genitore, salvo casi particolari previsti dalla legge.

Il consenso all’espatrio: dal 2023, grazie all’art. 20 del D.L. 13 giugno 2023 n. 69, non è più necessario il consenso dell’altro genitore per ottenere passaporto o carta d’identità del minore, salvo diversa disposizione del giudice.

Quando è possibile viaggiare all’estero con i figli?

Il viaggio può avvenire solo se l’altro genitore ha aprova lo specifico viaggio, avendo preso visione di destinazione, durata e itinerario.

Attenzione: il consenso è sempre richiesto, anche quando il giudice ha disposto l’affidamento esclusivo dei figli a un solo genitore. Questo perché si tratta comunque di una decisione importante che può incidere sulla vita e sulla crescita dei minori.

L’unica eccezione: decadenza della responsabilità genitoriale:
Se uno dei genitori è stato dichiarato decaduto dalla responsabilità genitoriale, l’altro può prendere decisioni (compreso l’espatrio) in piena autonomia, senza doverlo consultare.

Cosa succede se l’altro genitore si oppone?

In caso di disaccordo sull’espatrio e mancata soluzione consensuale, ci si può rivolgere al giudice tutelare, che deciderà tenendo conto del miglior interesse del minore. Lo stesso può fare il genitore che, pur avendo negato il consenso, vede ignorata la propria opposizione. Naturalmente, sia per chiedere il consenso che per negarlo, devono esserci motivazioni fondate: ad esempio, timore di un viaggio troppo lungo, preoccupazioni scolastiche o il sospetto di un trasferimento definitivo all’estero.

Le conseguenze del mancato rispetto:
Ignorare il parere contrario dell’altro genitore o la decisione del giudice può comportare gravi conseguenze legali, tra cui la revisione delle condizioni di separazione o affidamento, oltre a eventuali profili penali.

Cosa fare in caso di silenzio?

Se il genitore non risponde alla richiesta di consenso, è fondamentale seguire questi passaggi:

  1. Ripetere la richiesta in modo formale: Invia una seconda richiesta in modo chiaro e documentato (via email, raccomandata, etc.) per avere una traccia di ogni comunicazione.
  2. Consultare un avvocato: Un avvocato può consigliarti su come procedere legalmente. In alcuni casi, potrebbe essere necessario rivolgersi al giudice tutelare per chiedere l'autorizzazione, dimostrando che il silenzio dell'altro genitore potrebbe danneggiare l'interesse del minore.
  3. Intervento del giudice: Se l’altro genitore continua a non rispondere o rifiuta senza motivazioni adeguate, è il giudice a decidere se il viaggio all'estero è nell'interesse del minore, in base a ciò che ritiene migliore per il bambino.

 Il consiglio: Se state pianificando un viaggio all’estero con i vostri figli nei prossimi mesi, prima di acquistare i biglietti, verificate che non ci siano opposizioni da parte dell’altro genitore. Prevenire equivoci o contenziosi è sempre la scelta migliore.